giovedì 4 luglio 2013

Diritti sotto sequestro - Dal documento programmatico sui CIE alle prassi applicate Cronaca di una visita al CIE di Milo

Melting Pot - Nel corso del 2012 veniva elaborato un “Documento programmatico sui Centri di Identificazione ed Espulsione” predisposto da una “task-force”, incaricata dal Ministro dell’interno, “che si è recata presso i Centri presenti su tutto il territorio nazionale al fine di raccogliere informazioni.
Il ministro Cancellieri nel mese di giugno del 2012 aveva affidato al Sottosegretario Ruperto il compito di coordinare la “commissione”, composta dai massimi vertici del Viminale, proprio negli stessi mesi in cui una serie di visite effettuate nel corso della campagna “LasciateCIEntrare” avevano fatto emergere gravi lacune strutturali, come quelle che avevano imposto la chiusura dei CIE di Trapani (il vecchio Serraino Vulpitta) e di Lamezia Terme. 
In diverse sedi si erano riscontrate inadempienze contrattuali degli enti gestori, sulle quali stanno ancora indagando diverse Procure, come a Bologna, ed una serie di abusi, oggetto di esposti all’autorità giudiziaria, come nei casi delle rivolte nel CIE di Milo, e di una serie di pestaggi, sui quali ha indagato la Procura di Trapani, fino ad oggi senza esito. La circostanza che gli immigrati trattenuti nei CIE siano costantemente sottoposti a misure di trasferimento, specie quando non sono rimpatriati per il mancato riconoscimento delle autorità consolari, e l’elevato numero di fughe, ha spesso comportato la scomparsa di vittime e testimoni che avrebbero potuto imporre un approfondimento delle responsabilità penali connesse alla gestione dei CIE, e questa situazione di diffusa impunità ha lasciato ai rapporti di forza che si instaurano all’interno di queste strutture, anche a seconda del personale di polizia disponibile ed il numero degli immigrati trattenuti, il concreto regolamento delle procedure tra gli immigrati, gli operatori dell’ente gestore e il personale delle forze di polizia.

L’ultima visita al centro di identificazione ed espulsione di Trapani Milo
La visita effettuata il 29 giugno al CIE di Trapani Milo da una delegazione composta da parlamentari nazionali Erasmo Palazzotto di SEL e Davide Faraone del PD, con esponenti di associazioni antirazziste e sindacati, ha messo in evidenza come, nella prassi applicata, la situazione dei migranti, trattenuti all’interno di strutture inadeguate alla funzione carceraria alla quale sono destinate, sia ancora peggiorata rispetto alle visite effettuate nel corso del 2012. Il prolungamento dei tempi di detenzione amministrativa e la persistente automaticità delle convalide delle proroghe, frutto dei pacchetti sicurezza voluti dalla Lega e da Maroni, continuano a produrre effetti perversi. Ormai il trattenimento amministrativo è diventato una misura di limitazione della libertà personale ancora più afflittiva della detenzione in carcere.
E non è facile spiegare agli immigrati perché devono subire un trattamento così lesivo della dignità della persona, oltre che dalla durata assolutamente incerta. Rispetto alle visite effettuate nei mesi di giugno ed ottobre del 2012 non è stato possibile entrare nelle gabbie (sezioni) nelle quali erano rinchiusi gli “ospiti” molti dei quali, all’ingresso della delegazione, si sono avvicinati alle reti per fare sentire le loro ragioni, ma anche per protestare contro un sistema di detenzione che li costringeva in condizioni che non è difficile definire come “disumani e degradanti”. . . Ed altri non hanno voluto neppure fare sentire la loro voce, ormai consapevoli della inutilità di protestare le loro ragioni.
Eppure la Direttiva comunitaria 2008/115/CE sui rimpatri stabilisce, con il Considerando 17, che i cittadini dei paesi terzi trattenuti dovrebbero essere trattati “in modo umano e dignitoso, nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali”
La drastica riduzione del costo delle convenzioni stipulate dagli enti gestori con le prefetture ( con gare di appalto al massimo ribasso) e la riduzione degli organici di polizia, chiaramente percepibile rispetto alle visite effettuate lo scorso anno, hanno determinato un clima ancora più lacerato, per la riduzione delle attività di mediazione e per la eterogeneità delle situazioni giuridiche delle persone che vengono rinchiuse nei CIE. In attesa di una espulsione che in molti casi non si realizzerà mai, ma costretti ad un regime detentivo più duro di quello che si verifica in carcere, per la mancanza di una autorità giudiziaria che sorvegli sulle misure limitative della libertà personale ( come avviene in carcere con il giudice di sorveglianza) e per la totale essenza di una qualsiasi prospettiva di integrazione, invece presente in carcere dove si può lavorare e studiare. Un immigrato incontrato nel corso della visita effettuata nel CIE di Milo, affetto peraltro da una grave patologia polmonare, esibiva i certificati di frequenza scolastica per il diploma di scuola media, durante il periodo di detenzione in carcere, come se questo potesse in qualche modo impedire il suo rimpatrio, anche perché era presente da molti anni in Italia. Una di quelle situazioni in cui non riesce facile spiegare ad una persona perché si trova in un centro di identificazione ed espulsione. Quello spiraglio di integrazione che si intravede persino in carcere, nei centri di identificazione ed espulsione diventa un miraggio irraggiungibile.
Il Documento programmatico del ministero dell’interno, elaborato nel corso del 2012, partiva già da una premessa errata ricollegando alle “manifestazioni e rivoluzioni” della “Primavera Araba” l’aumento della presenza degli immigrati nei CIE, mentre invece è apparso evidente nel corso della visita effettuata nel CIE di Trapani Milo il 29 giugno, quanto rilevato dai rapporti di organizzazioni come MEDU (Medici per i diritti dell’Uomo). La maggior parte degli immigrati trattenuti nei centri provengono dal circuito carcerario, e/o sono immigrati presenti da anni in Italia, che si sono trovati nella condizione di irregolarità a seguito della perdita del posto di lavoro. 
Non è affatto vero poi che i centri “operano con capienza ridotta a causa del danneggiamento dei locali”, la verità è che le riparazioni non vengono più effettuate, i materiali di consumo, come i materassi, non vengono neppure sostituiti, ed alcune strutture sono parzialmente vuote per carenze di personale e per problemi insorti con gli enti gestori a seguito del forte ribasso dei corrispettivi previsti dalle convenzioni, come nel caso del CIE di Milo a Trapani. Durante la visita effettuata il 29 giugno erano presenti 120 immigrati circa a fronte di una capienza massima della struttura di 250 posti. Secondo quanto riferitoci, il Ministero dell’interno avrebbe richiesto il mantenimento di 70 posti circa, liberi, ma di “pronta disponibilità ” per il caso di sbarchi di migranti da respingere immediatamente, come si è fatto nei mesi scorsi con centinaia di egiziani e tunisini giunti sulle coste siciliane, in contrasto con le normative internazionali ed interne che riconoscono a tutti i migranti irregolari i diritti fondamentali della persona, incluso il diritto di chiedere asilo a altre forme di protezione, i diritti di difesa, il diritto alla salute. E il CIE di Trapani Milo è il centro di trattenimento più vicino rispetto all’aeroporto di Punta Raisi ( Palermo) dal quale, dopo un sommario riconoscimento con la mera attribuzione della nazionalità, vengono rimpatriati i tunisini. Una procedura consentita dagli accordi bilaterali stipulati da Maroni con la Tunisia il 5 aprile 2011 ma che adesso appare in contrasto frontale con quanto affermato dalla Corte di Cassazione, che con una recente sentenza, del 17 giugno scorso, ha individuato nel giudice ordinario la competenza a pronunciarsi sui ricorsi contro i respingimenti “differiti”. E dunque, prima di essere respinti o espulsi, tutti gli immigrati devono avere riconosciuto il pieno esercizio del diritto di difesa previsto dall’art. 24 della Costituzione, anche se la proposizione del ricorso non ha una efficacia sospensiva della misura di allontanamento forzato.

La durata del trattenimento
La visita effettuata il 29 giugno nel CIE di Trapani Milo ha permesso di evidenziare numerosi casi di migranti trattenuti anche oltre dieci mesi. Eppure il rapporto ministeriale prendeva atto che il tempo medio di permanenza nei CIE nel 2012 “ è stato di 38 giorni a fronte di un 50,6% di espulsi dopo il trattenimento”, dato che lo stesso ministero riconosceva peraltro “non completamente indicativo della situazione reale”. Lo stesso rapporto giungeva a constatare l’inutilità della detenzione amministrativa fino a 18 mesi. La proposta contenuta nello studio del ministero, corrispondente a quanto già anticipato lo scorso anno dal ministro dell’interno Cancellieri, consisteva nella riduzione della durata massima della detenzione amministrativa a dodici mesi, una proposta che, come osservato anche in un documento dell’ASGI, non modifica certo la situazione insostenibile dei CIE italiani, e non corrisponde neppure alla attuazione della Direttiva comunitaria sui rimpatri del 2008 che oltre il termine massimo di sei mesi prevede l’obbligo di una specifica motivazione individuale. Il sistema automatico delle proroghe comporta il mantenimento all’interno dei CIE di persone per le quali è ormai evidente che non ci sono più probabilità di rimpatrio, e dunque la detenzione amministrativa assume il carattere di una sanzione meramente afflittiva senza essere più finalizzata all’esecuzione effettiva delle misure di allontanamento forzato (espulsione prefettizia e respingimento disposto dal Questore).
Secondo l’art. 15 della Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, invece, il trattenimento dell’immigrato irregolare sottoposto ad una procedura di espulsione dovrebbe avere la durata più breve possibile ed è soggetto a riesame “ad intervalli ragionevoli” su richiesta dello straniero o d’ufficio, dovendo comunque cessare allorché risulti che “non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi…”

L’assistenza sanitaria
A fronte dei numerosi casi di autolesionismo che si verificano nei CIE, individuati dal ministero dell’interno come atti preordinati al ricovero in strutture sanitarie esterne, e senza prendere atto delle gravi carenze igienico sanitarie rilevate da tutti i rapporti indipendenti delle associazioni che hanno visitato i CIE nel 2012, oltre a Medu si vedano i rapporti dell’associazione “A buon diritto”, dei Rapporteur del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite, il “Documento programmatico del ministero dell’interno” proponeva un rinforzo dei presidi sanitari organizzati all’interno dei CIE allo scopo evidente di ridurre i casi di ricovero in ospedale. Si giungeva a prevedere addirittura la prassi di prelievi di sangue all’interno della struttura “ consentendo ai medici interni di formulare un’ipotesi diagnostica e di indirizzare l’ospite a una visita specialistica solo in caso di reale bisogno”. Neanche una parola sui soggetti più vulnerabili, sui tossicodipendenti, sulle vittime della tratta o su chi presenta segni evidenti di disagio psichico, l’unica preoccupazione del sistema della sanità all’interno dei CIE sembra essere la prevenzione di possibili fughe. 
La visita effettuata nel Cie di Milo ha messo in evidenza la carenza cronica dei presidi sanitari presenti all’interno della struttura, anche se l’ente gestore ha assicurato verbalmente il pieno rispetto degli standard previsti dallo schema tipo di convenzione predisposto dal Ministero dell’interno. Nel corso della visita, rispetto alle visite effettuate sempre a Milo nel 2012, appariva evidente l’assenza di personale infermieristico e la modesta presenza di operatori ed operatrici dell’ente gestore, forse a causa della riduzione del personale alla quale molti enti sono stati costretti per l’abbattimento dei costi delle convenzioni e per i ritardi dei pagamenti da parte delle prefetture. Unico elemento positivo, riscontrato di recente anche a livello documentale, frutto evidente di una diversa prassi seguita dalla Questura di Trapani, la collaborazione con il locale Ospedale nel ricovero o nel trattamento di alcuni casi particolarmente gravi, segnalati da avvocati che avevano avvertito organizzazioni di medici impegnati sul fronte della difesa dei migranti.

La differenziazione degli status giuridici
Non sembra che le indicazioni del ministero dell’interno per fare fronte alla “eterogeneità” degli status giuridici delle persone trattenute nei centri di detenzione, ovviamente “nel rispetto delle garanzie costituzionali e compatibilmente con l’organizzazione e le caratteristiche strutturali dei Centri”, abbiano avuto pratica attuazione nei Centri di identificazione ed espulsione come quello di Trapani Milo. Se permane la situazione di eterogeneità tra gli “ospiti” dei centri, è ormai evidente che le soluzioni suggerite dalla task force del ministero dell’interno risultano del tutto impraticabili.
Molti richiedenti asilo, o comunque persone che avrebbero diritto ad uno status di protezione, se adeguatamente informate, sono nei CIE, insieme a tutti gli altri immigrati irregolari, perché prima di potere avere accesso alla procedura di asilo hanno ricevuto un provvedimento di respingimento o di espulsione. Nel corso della visita effettuata nel CIE di Trapani Milo abbiamo scoperto anche un cittadino Sri Lanka di etnia Tamil che, se fosse riportato nel proprio paese, potrebbe essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti. Seguiremo sino in fondo la sua situazione, ma la circostanza che una persona di questa etnia, perseguitata nel paese di origine, si trovi all’interno di un CIE rende bene la disumanità del sistema della detenzione amministrativa applicata anche ai richiedenti protezione internazionale. D’altra parte si può anche verificare, come si verifica proprio nel caso di molti tamil, che molti immigrati abbiano convertito il loro permesso di soggiorno per motivi umanitari o per protezione internazionale in un permesso di soggiorno per lavoro, ma in caso di perdita di questo permesso di soggiorno rimangono comunque in vigore anche per loro le cause di inespellibilità previste dall’art. 19 del Testo unico n.286 del 1998 (In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione).

L’applicazione della doppia pena
Alcuni immigrati trattenuti nel CIE di Trapani Milo lamentavano che la loro situazione era diventata peggiore di quando erano internati in carcere, soprattutto perché non riuscivano a comprendere le ragioni delle successive proroghe del loro trattenimento anche nei casi in cui le autorità consolari avevano negato il loro riconoscimento e dunque il loro rimpatrio. Di fatto queste persone sono vittime di una detenzione amministrativa di durata indeterminata, perché anche quando fossero rimesse in libertà potrebbero essere arrestate di nuovo e riportate dentro un centro di identificazione ed espulsione. L’Italia non ha applicato quella parte della direttiva comunitaria sui rimpatri ( 2008/115/CE) che prevede che la detenzione amministrativa sia finalizzata esclusivamente all’esecuzione delle misure di rimpatrio, e che questa debba cessare non appena risulti evidente che il rimpatrio non è possibile. In base al Considerando 16 della Direttiva comunitaria 2008/115/CE sui rimpatri degli immigrati irregolari, che dopo la scadenza del termine di attuazione (25 dicembre 2010) ha acquistato una precisa portata precettiva sul piano del diritto interno, malgrado il recepimento parziale da parte del legislatore interno,“il ricorso al trattenimento ai fini dell’allontanamento dovrebbe essere limitato e subordinato al principio di proporzionalità con riguardo ai mezzi impiegati e agli obiettivi perseguiti. Il trattenimento è giustificato soltanto per preparare il rimpatrio o effettuare l’allontanamento e se l’uso di misure meno coercitive è insufficiente”.
Si deve ribadire l’assoluta urgenza che per gli immigrati “ex detenuti” vengano anticipate le pratiche di identificazione in carcere, perché non sembra che si sia realizzata quella“ fattiva collaborazione” tra il ministero dell’interno e quello della giustizia, auspicata nel Documento programmatico del ministero dell’interno, in modo da agevolare il riconoscimento da parte delle autorità diplomatiche e consolari subito dopo l’arresto e prima dell’udienza di convalida. Neppure il passaggio dell’ex ministro dell’interno al ministero della giustizia ha costituito occasione per un raccordo tra le due amministrazione, in modo da evitare ai migranti già detenuti, e spesso per questa ragione privati del permesso di soggiorno, una “doppia pena”. Una detenzione amministrativa prolungata fino a 18 mesi, come voluto dai pacchetti sicurezza di Maroni, risulta sempre più una misura meramente afflittiva, ingiusta rispetto a persone che hanno pagato il loro debito con la giustizia e che in molti casi sono radicati da anni in Italia con le loro famiglie. Una misura che non produce certo maggiore sicurezza, come alcune forze politiche hanno sostenuto da anni, ma che in realtà si traduce in ulteriore esclusione e frustrazione, sentimenti che non giovano certo per la coesistenza pacifica.
Nel corso delle ultime visite nei CIE, e il 29 giugno in occasione dell’ingresso nel CIE di Trapani Milo, abbiamo rilevato che alcune prassi di polizia sono state temperate, almeno da un punto di vista formale, le convalide vengono effettuate nel centro di identificazione ed espulsione alla presenza dell’interessato e non in Tribunale, senza garantire il rispetto del contraddittorio e dei diritti di difesa, come avveniva a Trapani fino al mese di giugno del 2012. E finalmente la competenza a convalidare le misure di trattenimento dei richiedenti asilo è stata trasferita dai giudici di pace al tribunale ordinario, come prevede la legge, una legge per anni ignorata proprio a Trapani. Eppure, malgrado il riconoscimento di queste garanzie formali la situazione all’interno dei CIE rimane sempre assai tesa, come è stato confermato dalle urla che ci hanno accompagnato durante la visita e da alcuni tentativi di fuga simbolici, ma che esprimevano bene la capacità di scavalcare i muri di recinzione non appena si fossero create le situazioni favorevoli per una fuga, come l’oscurità o l’assenza di personale di mediazione e controllo.

Rivolte, “modalità di ripristino” del trattenimento e aggravanti di reato
L’aspetto forse più preoccupante del Documento programmatico sui CIE, elaborato lo scorso anno da una task force del Ministero dell’interno, riguardava proprio la “Tutela della pacifica convivenza all’interno dei Centri”, in quanto “non infrequenti risultano gli episodi di sedizione e rivolta che si registrano all’interno dei Centri” con “condotte violente ed antisociali da parte di alcuni ospiti, che spesso sfociano in danneggiamenti severi delle strutture, con conseguente perdita di ricettività delle stesse o, a volte, necessità di chiusure temporanee per provvedere al ripristino”. Si proponevano anche in questo caso misure già sperimentate, come recentemente anche nei CIE di Modena e Bologna, come il trasferimento in altre strutture di trattenimento, oppure “la creazione, all’interno di ogni CIE, di moduli idonei ad ospitare persone dall’indole non pacifica”. Si prevedevano trattamenti detentivi di rigore per quelle persone definite dalla polizia “dall’indole non pacifica”, un’ulteriore dilatazione della discrezionalità amministrativa sottratta ad un effettivo controllo del giudice, in contrasto con le stesse fondamenta della nostra Costituzione ( in particolare gli articoli 3, 13 e 24). Ma adesso un giudice di pace di Roma ha messo in dubbio la legittimità costituzionale dell’art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione, che prevede i CIE, e la loro organizzazione e gestione da parte delle autorità amministrative, proprio da questo peculiare punto di vista.
Nel Documento programmatico del ministero dell’interno non si ipotizzavano soltanto forme ulteriori di restrizioni della libertà personale per via amministrativa, ma si invocavano anche “norme di rango primario” cioè nuove leggi, “ per configurare una specifica aggravante per i reati commessi all’interno dei CIE, caratterizzati da condotta violenta”, in modo da conferire al Prefetto, al Questore o ad altre autorità amministrative, “il potere di intervenire in caso di episodi, attuali o potenziali, di insurrezione o di grave danneggiamento, disponendo, in via cautelativa, con provvedimento motivato, di carattere amministrativo, sottoposto al controllo di legittimità del giudice di pace, il trattenimento degli autori, per brevi periodi di tempo, in aree differenziate della struttura, quando sulla base di riscontri oggettivi, il provvedimento stesso risulti ragionevolmente idoneo a prevenire il danneggiamento delle strutture e a garantire la sicurezza degli ospiti, ovvero a scongiurare la reiterazione degli atti compiuti”. La situazione verificata nel corso della visita del 29 giugno nel CIE di Trapani Milo, non ha permesso di verificare se la suddivisione degli immigrati nelle diverse “gabbie” corrispondesse a criteri di maggiore o minore attitudine alla ribellione. In ogni caso non si tratta certo di aggravare ancora le sanzioni penali che incombono sul capo degli immigrati irregolari, atteso il sostanziale fallimento di tutte le politiche migratorie basate sulla criminalizzazione degli immigrati irregolari e delle loro condotte.
In verità la disperazione riscontrata nei CIE in occasione delle ultime visite, come nel caso del CIE di Trapani nel corso della visita effettuata il 29 giugno, è tale che sono frequenti le esplosioni di tensione tra quelli che troppo eufemisticamente vengono definiti ancora come “ospiti”. E il timore di una sanzione penale non sembra proprio idoneo a produrre un qualsiasi effetto di pacificazione. Basta la scarsa qualità dei pasti, generalmente lamentata, o un ritardo nella somministrazione degli ansiolitici e degli psicofarmaci di cui nei CIE si fa largo uso, anche per la mancanza di cure specifiche per gli ex detenuti tossicodipendenti, e a questo punto, come è successo anche nel corso di questa ultima visita, scattano i gesti di protesta come i tentativi di fuga da parte di persone che si arrampicavano su muri del centro, più per esprimere il loro disagio, che per la concreta possibilità di allontanarsi dalla struttura, di fronte ad un muro di poliziotti in assetto antisommossa, con gli idranti pronti a colpire. Ma gli stessi agenti di polizia apparivano, una volta tanto, vittime pur sempre consapevoli e per certi aspetti rassegnate, di un sistema di detenzione evidentemente inefficace, costoso e anche pericoloso per gli operatori, un sistema che però nessuno sembrava potere scalfire.
Nel CIE di Milo, malgrado le assicurazioni dell’ente gestore, dalla viva voce dei trattenuti, sarebbe meglio dire dalle loro urla, abbiamo avuto la conferma di quanto rilevato dal Documento programmatico del ministero dell’interno, e non sono state adottate, o peggio siano fallite, le misure concrete per migliorare la situazione. Il rapporto precisava che “ poiché la totale assenza di attività all’interno dei Centri, che si sostanzia in un ozio forzato, comporta un aumento di aggressività e malessere e si traduce in un aumento di episodi di tensione tra immigrati trattenuti e forze dell’ordine, modalità di trattenimento distinte ed una diversa suddivisione degli spazi permetterebbero agli ospiti di trascorrere il tempo in maniera costruttiva (come, dove, quando ? Nda), con la possibilità di svolgere, in un contesto più armonico e gradevole, attività ricreative e sportive”. Però si osserva subito dopo che occorre limitare l’utilizzo degli impianti sportivi all’aperto e si prevede “la predisposizione di un sistema di difese passive all’interno di ogni CIE, in modo da scongiurare sul nascere i tentativi di fuga, attualmente assai frequenti”. Nulla di tutto questo è stato realizzato nel CIE di Milo ed alcuni immigrati osservavano che non era loro permesso neppure il gioco delle carte, mentre le forze di polizia potevano trascorrere anche in questo modo il loro tempo, all’interno della struttura, per certi aspetti reclusi con i reclusi. Erano ben evidenti e pronti all’uso, ancora gocciolanti, gli idranti da sparare sulle sbarre e sui portoni di ingresso per contrastare i tentativi di fuga.
Il tentativo suggerito dal Documento programmatico del Ministero dell’interno di trasferire sull’ente gestore il compito di “intercettare le situazioni di disagio e canalizzarle in modo costruttivo, attraverso l’ascolto, il dialogo e la mediazione, allo scopo di prevenire il sorgere di situazioni conflittuali”, ignora la vera radice dei conflitti ricorrenti all’interno dei CIE ed appare in contrasto con l’abbattimento dei costi delle convenzioni, che in molte strutture, come abbiamo verificato nel CIE di Trapani Milo, sta comportando proprio l’effetto opposto, con la rarefazione del personale di mediazione degli enti gestori e con una sovra utilizzazione delle forze di polizia, al punto che questa come altre strutture funzionano a capienza limitata proprio per le carenze di personale. Il colloquio con il Direttore dell’ente gestore si è interrotto all’improvviso per una emergenza all’interno della struttura che richiedeva la sua mediazione con alcuni ospiti. Una dimostrazione evidente delle carenze di personale di mediazione che affligge cronicamente i CIE, dopo l’abbattimento drastico dei costi e per i ritardi nei pagamenti da parte delle Prefetture. Sembra anche che periodicamente si verifichino scioperi di protesta da parte del personale dell’ente gestore per il mancato pagamento degli stipendi.

La convalida del trattenimento ed il diritto di informazione e comunicazione
Il documento programmatico del Ministero dell’interno ribadiva l’esigenza che le procedure di convalida del trattenimento si svolgessero all’interno dei centri di detenzione, “evitando così alle questure un sovraccarico di compiti per l’accompagnamento degli stranieri presso le aule giudiziarie”, sulla scorta di una prassi amministrativa già collaudata, che nel tempo è stata anche censurata dalla giurisprudenza e dai Consigli dell’ordine degli avvocati perché non veniva garantito un esercizio effettivo dei diritti di difesa, richiamato espressamente dalla direttiva comunitaria 2008/115/CE sui rimpatri e dall’art.13 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, oltre che dalla nostra Costituzione (art.24). 
Lo studio del Ministero, “ affinché si evitino le disomogeneità di trattamento evidenziate anche dalla stampa”, concludeva auspicando una “ libera, corretta e trasparente assistenza legale”, ed è questo un punto assai dolente che è emerso durante la visita effettuata il 29 giugno nel Cie di Trapani Milo. Molti immigrati lamentavano di non avere mai visto un avvocato, o di non essere stati rappresentanti nelle udienze di convalida. In effetti da alcuni documenti che hanno esibito risultava che gli avvocati nominati d’ufficio non si erano neppure presentati in udienza, o forse non erano stati tempestivamente informati, e che in alcuni casi erano intervenuti nel ruolo di difensori avvocati che non conoscevano nulla della situazione personale del loro assistito.
Malgrado i rappresentanti dell’ente gestore avessero affermato l’esistenza di una lista di avvocati d’ufficio, predisposta-non si è compreso bene- da chi e sulla base di quali criteri, parlando con i trattenuti si è avuta conferma come alcuni avvocati benché nominati non avessero mai svolto una effettiva attività di difesa, rendendosi anche difficilmente reperibili da parte di persone costrette in una situazione di totale limitazione della libertà personale e con minime possibilità di comunicare con l’esterno attraverso schede telefoniche. Solo pochi migranti, a differenza di quanto rilevato in precedenti visite, risultava in possesso di un telefono cellulare, e tutti lamentavano di non potere esercitare pienamente il loro diritto di comunicare con l’esterno, riconosciuto anche dall’art. 14 del Testo Unico 286 del 1998 in materia di immigrazione.

Trattenimento amministrativo e rimpatrio volontario
Alcuni immigrati tunisini, uno che era stato riportato in Italia dalla Danimarca, in possesso dei documenti o di fotocopia dei documenti di identità, lamentavano di non potere esercitare il diritto al rimpatrio volontario. Nella prassi applicata rimane preclusa alla maggior parte degli immigrati trattenuti nei CIE la partenza volontaria, una ipotesi che la nostra legislazione appare escludere, salvo casi particolari, proprio gli immigrati rinchiusi all’interno di un centro di detenzione già destinatari di misure di allontanamento forzato.
Una nuova dislocazione dei centri
Il relativo svuotamento del CIE di Trapani Milo sembra corrispondere al richiamo alla collaborazione delle autorità consolari, considerato dal Documento programmatico del ministero dell’interno come “uno degli strumenti più efficaci per ridurre i tempi di identificazione degli stranieri irregolari”. In realtà questo sembra proprio pretesto per una nuova dislocazione dei CIE nel territorio nazionale, in quanto “sarebbe opportuno concentrarne la presenza soprattutto nelle città in cui si trovano i consolati o le ambasciate dei paesi maggiormente interessati al fenomeno migratorio, riducendo i tempi di spostamento e semplificando i compiti dei funzionari diplomatici nell’organizzazione degli incontri con gli stranieri da identificare”. Mentre si mantiene vuoto per metà il CIE di Trapani Milo si vorrebbe aprire un CIE temporaneo a Santa Maria Capua Vetere, in Campania, con la spesa di oltre dodici milioni di euro all’anno, probabilmente perché più vicino alle rappresentanze consolari e diplomatiche ubicate a Roma, Napoli e Bari.

Chiudere i CIE
I tempi attuali non sembrano consentire un facile ottimismo per una revisione legislativa della normativa italiana in materia di immigrazione ed asilo, e negli ultimi anni il nostro legislatore è stato costretto ad intervenire solo dopo casi eclatanti di condanna delle corti internazionali o per dare attuazione, spesso parziale, alle direttive comunitarie, come si è verificato da ultimo con la legge n.129 del 2011 con riferimento alla direttiva sui rimpatri 2008/115/CE. Per questa ragione, di fronte al sostanziale vuoto politico nel quale si sta verificando una crescente separatezza ed autoreferenzialità delle forze di polizia e del ministero dell’interno più in generale, come le più recenti visite nei Centri di detenzione italiani confermano. La visita nel CIE di Trapani Milo ha confermato il deterioramento delle condizioni di vita all’interno di questa struttura, ed un clima di crescente disperazione, malgrado il numero degli immigrati trattenuti sia dimezzato rispetto al passato. E malgrado questo “alleggerimento” della struttura sono state confermate condizioni di scarsa vivibilità e modalità detentive che non appaiono consone all’esecuzione delle espulsioni, assumendo una mera connotazione afflittiva.
L’art. 8 della Direttiva comunitaria 2008/115/CE, stabilisce che “ ove gli Stati membri ricorrano- in ultima istanza- a misure coercitive per allontanare un cittadino di un paese terzo che oppone resistenza, tali misure sono proporzionate e non eccedono un uso ragionevole della forza. Le misure coercitive sono attuate conformemente a quanto previsto dalla legislazione nazionale in osservanza dei diritti fondamentali e nel debito rispetto della dignità e dell’integrità fisica del cittadino di un paese terzo interessato”.
Occorre dunque intensificare lo sforzo per la chiusura, immediata, dei CIE quando questi evidenzino casi di trattamento inumano o degradante, vietato anche dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo ( art.3) e per fornire intanto ogni forma di assistenza, a partire dall’assistenza legale, con modalità più trasparenti di quelle attuali, a quanti vi rimangono rinchiusi. Perché il diritto di difesa previsto dall’art.24 della Costituzione sia garantito effettivamente a tutti, senza discriminazioni e senza alcuna forma di sfruttamento del disagio di persone private di tutti i loro riferimenti esistenziali.

Prof. Fulvio Vassallo Paleologo