giovedì 6 marzo 2014

Il Centro di accoglienza richiedenti asilo di Mineo: il simbolo di un fallimento

di Elio Tozzi - scienzaepace.unipi.it

Il Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo, in provincia di Catania, rappresenta il simbolo del fallimentare sistema di accoglienza italiano. Immerso nelle campagne della piana di Catania, e lontano dai centri abitati, si trova l’ex Residence degli Aranci, un tempo lussuosa residenza delle famiglie dei militari statunitensi di stanza a Sigonella, oggi il più grande CARA esistente in Italia e in Europa. Istituito repentinamente nell’ambito della cosiddetta “Emergenza Nord Africa”, nel marzo del 2011, il CARA di Mineo è stato, sin dal principio, descritto come il fiore all’occhiello dell’accoglienza all’italiana, un modello da esportare in Europa. Allo stesso tempo è stato definito “ghetto”, “prigione dorata”, “inferno a 5 stelle”, “limbo”. Attualmente ospita circa quattromila richiedenti asilo a fronte di una capacità, dichiarata sin dalla sua apertura, di duemila posti.


 1. Emergenza Nord Africa”: nasce l’idea del “Villaggio della Solidarietà”

Sul finire del 2010, la cosiddetta “Rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia ebbe un effetto domino nell’intera regione del Maghreb cosi come nel Vicino e Medio Oriente. Tali rivoluzioni stravolsero lo scenario geopolitico nell’intero bacino del Mediterraneo coinvolgendo inevitabilmente, data la sua collocazione geografica, l’Italia. Dal mese di Febbraio 2011 l’isola di Lampedusa, cosi come Malta, fu soggetta ad un flusso considerevole di sbarchi provenienti inizialmente dalle coste tunisine. Oggi possiamo affermare con certezza quanto già appariva evidente due anni or sono: che lo scenario apocalittico paventato dal governo in carica in quel periodo, adeguatamente supportato dai salotti della televisione nazionale, fosse eccessivo e probabilmente mirato a costruire l’idea di un’emergenza mai verificatasi prima, che giustificasse da una parte l’adozione di atti straordinari in grado di aggirare la normativa vigente e dall’altra una ferrea politica di contrasto all’immigrazione clandestina.

Il primo passo in tale direzione fu compiuto con l’adozione del D.P.C.M del 12 febbraio 2011 con il quale si dichiarava lo “stato di emergenza nel territorio nazionale in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa”. A tal proposito, occorre ricordare come sin dal principio si fece leva sulla differenza fra i cittadini tunisini - spesso definiti “clandestini”, raramente “migranti economici”, ed in quanto tali da rimpatriare il prima possibile - e tutti gli altri “profughi” potenzialmente meritevoli di protezione internazionale. La criminalizzazione e l’uso-abuso del termine “clandestino” rappresentano una costante nelle recenti politiche sull’immigrazione ed in questo caso ha contribuito alla sommaria ed automatica esclusione dei cittadini tunisini dalla categoria dei potenziali richiedenti protezione internazionale. Il 18 febbraio venne poi emanata l’O.P.C.M n. 3924 recante “disposizioni urgenti di protezione civile per fronteggiare lo stato di emergenza umanitaria”. L’art. 1 nominava commissario delegato il Prefetto di Palermo, Giuseppe Caruso, cui spettava il compito di provvedere alla realizzazione dei seguenti punti: a) definizione dei programmi di azione, anche per piani stralcio, per il superamento dell'emergenza; b) censimento dei cittadini sbarcati sul territorio italiano dai paesi del Nord Africa; c) adozione di misure finalizzate all'individuazione di strutture ed aree anche da attrezzare destinate alla gestione dell'emergenza, nonché al potenziamento di quelle esistenti.

È interessante notare come l’O.P.C.M. n. 3925, emanata appena 5 giorni dopo la n. 3924, all’art. 17 introducesse una serie di modifiche rilevanti fra le quali spiccava l'inserimento all’art. 1 co. 2 lettera c) delle parole: "ivi compresa l'acquisizione, anche con contratto di locazione, di strutture da destinare al superamento dell'emergenza umanitaria, anche in deroga all'articolo 2, comma 222, della legge 23 dicembre 2009, n. 191". Inoltre, veniva aggiunta la lettera d) ossia: “adozione, in raccordo con il Dipartimento per le Libertà Civili e l'Immigrazione del Ministero dell'Interno, di eventuali provvedimenti per la ridistribuzione tra i CARA, operanti sul territorio nazionale, dei richiedenti asilo". E’ evidente come tali modifiche fossero state introdotte per consentire la creazione del “Villaggio della Solidarietà” a Mineo, emblema di quella che sarebbe stata la risposta del governo all’emergenza Nord Africa e, nello specifico, all’emergenza Lampedusa, stracolma di giovani tunisini.

La decisione di utilizzare il Residence degli Aranci sito in Contrada Cucinella nel comune di Mineo e di proprietà della Pizzarotti S.p.a, che fino a poco tempo prima era stata residenza dei militari americani di stanza a Sigonella, fu tanto improvvisa quanto risoluta: il 14 febbraio 2011, il ministro dell’Interno, Maroni, e il Presidente del Consiglio, Berlusconi, vi effettuarono un sopralluogo individuando il Residence quale luogo idoneo ove dar vita al futuro “Villaggio della Solidarietà”. Per le sue caratteristiche, affermava Maroni, la struttura appariva più indicata ad accogliere i richiedenti asilo piuttosto che i clandestini. Al “Villaggio della solidarietà”, pubblicizzato continuamente come futuro fiore all’occhiello dell’accoglienza italiana, sarebbero stati trasferiti i richiedenti asilo ospitati presso i diversi CARA presenti sul territorio nazionale. Tale “sistema di triangolazione”, così come lo definì il commissario delegato all’emergenza, il Prefetto Caruso, nell’ambito di un’intervista a noi rilasciata, avrebbe liberato posti utili per i nuovi arrivati a Lampedusa e avrebbe, inoltre, premiato quei richiedenti asilo che sarebbero rimasti sicuramente sul territorio trasferendoli da CARA fatiscenti ad un centro eccellente quale sarebbe stato il centro di Mineo. Al di là della retorica governativa, tale soluzione sembrava piuttosto riconducibile ad un altro obiettivo, tra l’altro apertamente dichiarato dal vice capo del dipartimento delle
Libertà civili e dell’immigrazione presso il Ministero dell’Interno, dott. Postiglione, ovverosia: svuotare i CARA italiani per trasformarli in CIE. A conferma di tale orientamento è sufficiente ricordare quanto sancito dall’O.P.C.M. n. 3935 del 21 aprile 2011, che trasformava le strutture temporanee attivate per l’accoglienza nei comuni di Santa Maria Capua Vetere (CE) – caserma ex Andolfato, Palazzo San Gervasio (PZ) e Trapani località Kinisia in Centri di identificazione ed espulsione.

Per realizzare il Villaggio della Solidarietà, il governo doveva però affrontare le forti ritrosie dei sindaci dei 15 comuni del Calatino, fino a quel momento pressoché ignorati. Il governo, quale strumento di persuasione, utilizzava principalmente la carta della sicurezza puntando sull’incremento delle forze di polizia e sull’installazione di sistemi integrati di video-sorveglianza che avrebbero garantito l’ordine e la sicurezza dei cittadini e dei futuri “ospiti”. L’approccio securitario assunto dal governo era in parte agevolato dalle principali remore dei sindaci della zona legate proprio alla questione sicurezza. L’impegno del governo a sottoscrivere un Patto per la sicurezza, unito alla volontà di alcuni sindaci di sfruttare a pieno le “opportunità” che l’apertura del centro avrebbe implicato, portarono ad una decisione abbastanza condivisa. Restavano fermamente contrari i sindaci di un terzo dei comuni del Calatino (Castel di Iudica, Caltagirone, Grammichele, Ramacca e Mineo) che in una lettera inviata al Ministro dell’Interno Maroni affermavano:

"Il modello Mineo non risponde all’idea che abbiamo consapevolmente maturato, sulla scorta dell’esperienza di effettiva integrazione portata avanti nelle nostre comunità. Non ci piace che almeno duemila persone vengano deportate in un luogo senza i necessari presidi e senza vere opportunità di inclusione, in una condizione di segregazione che potrebbe preludere da un lato a rivolte sociali, dall’altro indurre alcuni di loro, a fronte di una stragrande maggioranza pacifica e ispirata alle migliori intenzioni, a mettere a dura prova le condizioni di sicurezza del territorio". Concludevano puntualizzando che: “la vera accoglienza si costruisce solo dentro un tessuto di relazioni e una rete diffusa di servizi che aiuti gli immigrati a inserirsi, per piccoli gruppi, nelle comunità e rappresenti per loro e per le professionalità che si trovano numerose e qualificate nel nostro territorio, un’effettiva opportunità”.

Tali voci, però, erano ormai espressione di una minoranza. A Mineo ad esempio, si era costituito anche un comitato cittadino “Pro-Residence della Solidarietà” che prospettava per Mineo un futuro da “porta d’accesso all’Europa”. A parte la retorica prevedibile, nel volantino distribuito per la raccolta firme venivano soprattutto evidenziati gli effetti positivi che il CARA avrebbe comportato: lavoro per le imprese locali di servizi, occupazione per almeno 300 operatori sociali e maggiore sicurezza del territorio. A titolo esemplificativo riportiamo questa dichiarazione: “La nostra città sembra essere irrimediabilmente destinata ad un lento declino: la quasi estinzione. Per evitare questo noi vogliamo che il “Residence della Solidarietà” diventi un’opportunità di futuro per i giovani di Mineo”.

È interessante notare come la firma apposta al volantino del Comitato portasse il nome della cooperativa “Sol.Calatino” che pochi mesi dopo avrebbe fatto parte della cordata di cooperative che si sarebbero avvicendate alla Croce Rossa nella gestione del CARA e che attualmente è parte dell’ATI che gestice il CARA.

Il decreto n. 16355 del 2 marzo 2011, firmato dal Commissario delegato per l'emergenza Nord Africa e successivamente integrato dal decreto n. 17132 del 4 marzo 2011, sanciva la requisizione del « Residence degli Aranci » fino al 31 dicembre 2011. Due giorni dopo l’effettiva apertura del “Villaggio della solidarietà”, il 20 marzo 2011, veniva firmato l’atteso Patto per la sicurezza dal Prefetto di Catania, dal Presidente della Provincia di Catania e dai sindaci dei 15 comuni del Calatino. Centrato quasi esclusivamente sulla questione sicurezza, il Patto non forniva particolari indicazioni sui futuri “ospiti” della struttura, piuttosto faceva riferimento a livelli di assistenza ottimali e a percorsi di inclusione sociale sempre in funzione della sicurezza o delle “positive ricadute in termini socio- economici locali”. L’impegno delle Parti a promuovere “l’integrazione degli stranieri (...) la definizione di attività formative (...) la conoscenza esperienziale del territorio e della cultura locale", era sancito all’art. 3, denominato, a scanso di equivoci, “Immigrazione e sicurezza”. Relativamente alle funzioni della struttura si affermava che avrebbe accolto solo richiedenti asilo che avessero “ formalizzato già da tempo il percorso giuridico della richiesta d’asilo”. Quest’ultimi sarebbero stati inseriti gradualmente e fino ad un numero massimo di 2000. Tali importanti promesse vennero prontamente disattese dal governo. Soltanto quattro giorni dopo la firma, il 24 marzo, amministratori e diversi sindaci del Calatino costituivano un cordone umano di fronte al “Villaggio della Solidarietà” per impedire alle forze di polizia di completare il trasferimento di 498 tunisini provenienti da Lampedusa. Gli amministratori locali parlavano di una grande farsa, di un grande bluff del governo che avrebbe presto fatto di Mineo un lager. Il citato decreto istitutivo del 30 marzo, notificando la duplice natura C.A.R.A/C.D.A del Residence degli Aranci, di fatto formalizzava l’elusione del Patto per la sicurezza.


2. La gestione della Croce Rossa Italiana

In virtù dell’art. 3 dell’O.P.C.M n. 3924 che consentiva al Commissario delegato di attivare le necessarie forme di collaborazione per i profili umanitari e assistenziali con la CRI, con l’UNHCR e con l’OIM, la gestione del “Villaggio della Solidarietà” venne affidata alla Croce Rossa Italiana con termine fissato al 30 giugno 2011. La gestione della CRI fu caratterizzata da un approccio emergenziale e soprattutto militarizzato. Il costante e massiccio pattugliamento delle forze dell’ordine, sia all’interno che all’esterno del centro, restituiva più l’immagine di una prigione da sorvegliare che di un’oasi di pace. Ciò era, solo in parte, giustificato dall’ingente numero di ospiti trasferiti al centro in tempi brevissimi. Aperto effettivamente il 18 marzo 2011, il centro, dopo appena due settimane, contava già 1595 “ospiti”. Contrariamente a quanto prestabilito nel Piano per la sicurezza, il trasferimento dei richiedenti asilo, nonché dei giovani tunisini, avveniva in modo tutt’altro che graduale.

A destare forti perplessità era oltretutto il metodo utilizzato per effettuare i trasferimenti dai diversi C.A.R.A al Villaggio della Solidarietà, definiti senza mezzi termini “deportazioni” da autorevoli associazioni. Questi venivano disposti tramite “una decisione presa con comunicazione diretta del Ministero dell’Interno in condizioni di assoluta urgenza e senza alcuna pianificazione con le autorità locali”, come denunciato dal Cir, Consiglio Italiano per i Rifugiati. Nello stesso comunicato, il direttore del Cir, Christopher Hein, segnalava l’assenza di notifica ai richiedenti asilo di un provvedimento scritto ed inoltre, riferendosi nel caso specifico ai trasferimenti avvenuti dal C.A.R.A. di Roma il 21 marzo, riferiva che i trasferimenti avvenivano non su base volontaria ma tramite minacce di revoca delle condizioni di accoglienza. I trasferimenti, oltre a sradicare i richiedenti asilo dal tessuto sociale nel quale avevano vissuto per mesi, avevano causato diversi disguidi: per i “diniegati” l’indicazione errata del Tribunale competente per l’eventuale ricorso; per coloro che avevano avviato altrove l’istanza di protezione internazionale, invece, il trasferimento della competenza e dei relativi atti documentali aveva generato ritardi significativi per l’esame della domanda. Inoltre, accadeva spesso che i richiedenti trasferiti dagli altri CARA venissero “scavalcati” nella convocazione da parte della Commissione territoriale da coloro che, appena giunti dalla Libia via Lampedusa, avevano intrapreso l’iter del riconoscimento della protezione internazionale a Mineo. Tale condizione era fonte di notevoli tensioni che talvolta sfociavano in risse fra i richiedenti stessi. All’interno del Villaggio della Solidarietà, d’altronde, vi era un clima surreale, una calma apparente che nascondeva una sofferenza comune alla quasi totalità degli ospiti.

All’iniziale fase emergenziale, infatti, non seguì alcuna programmazione volta a fornire le dovute condizioni di accoglienza. Per gli “ospiti” le giornate all’interno del centro non passavano mai, interminabili file caratterizzavano le pochissime “azioni” quotidiane come recarsi a mensa o effettuare una telefonata. La mancanza totale di attività ricreative, l’impossibilità di leggere un giornale, l’assenza di una rete che consentisse l’utilizzo di internet, cosi come i problemi di ricezione dell’antenna Tv, davano sempre più ai richiedenti la sensazione di vivere in un sostanziale isolamento, tagliati fuori dal mondo. A rendere ancor più concreta tale sensazione contribuiva la collocazione geografica del Residence degli Aranci, immerso si in una splendida cornice di aranceti, ma distante ben 11 km dal centro abitato di Mineo. La disorganizzazione, anche sotto questo aspetto, provocava disagi notevoli. Al momento dell’apertura del centro non erano disponibili collegamenti pubblici né privati con Mineo e con gli altri paesi del Calatino. Ciò rendeva di fatto relativa la “libertà” di uscire nelle ore diurne dei richiedenti protezione internazionale; quest’ultimi erano infatti costretti a “passeggiate” di oltre 20 km per recarsi in paese. Il servizio navetta non solo non venne programmato in anticipo o contestualmente all’apertura del centro, ma non fu attivato fino all’estate a causa di un continuo “scarica barile” in merito alle competenze fra la Croce Rossa, la Prefettura e il Ministero dell’Interno. Soltanto nel mese di giugno furono attivati dei bus navetta a pagamento. Il problema non era soltanto legato al costo del biglietto ma, soprattutto, al fatto che la Croce Rossa, nell’arco della sua gestione, non elargì mai ai richiedenti protezione internazionale il pocket money per le piccole spese giornaliere, a differenza di quanto avveniva in tutti gli altri C.A.R.A. d’Italia.

Alla totale mancanza di attività sin qui descritta, occorre aggiungere che all’interno del “Villaggio della Solidarietà” l’orientamento e l’assistenza legale erano pressoché inesistenti. La mancanza di un servizio di informazione ed assistenza legale negava ai richiedenti protezione internazionale il diritto ad ottenere informazioni corrette ed in una lingua loro comprensibile sulla procedura di asilo. A ciò va aggiunto che in virtù della nota circolare n. 1305 dell’1 aprile 2011 (che consentiva l’accesso ai “centri per immigrati” esclusivamente alle organizzazioni che operavano in regime di convenzione con il Ministero dell’Interno) veniva spesso impedito ai legali di accedere alla struttura; numerose sono, infatti, le testimonianze di avvocati che denunciavano le condizioni nelle quali erano costretti a comunicare con gli assistiti. I richiedenti attendevano inesorabilmente un documento, un’audizione davanti alla commissione territoriale o la data dell’udienza per il ricorso: tutti erano in perenne attesa. Non è un caso che il Villaggio della Solidarietà venne spesso definito un “limbo”, come nel caso del report di Medici Senza Frontiere emblematicamente intitolato “dall’inferno al limbo”. Gli osservatori avevano riscontrato numerosi casi di depressione, isolamento e confusione. È opportuno ricordare che all’interno del centro non venne attivato alcun servizio di monitoraggio volto ad individuare e seguire adeguatamente i c.d. casi vulnerabili. Nel report si affermava, inoltre, che l’estenuante attesa era fonte di disperazione fra gli “ospiti”. Ciò innescava reazioni diverse, ma allo stesso modo estreme. Se da una parte si registravano ben 7 tentati suicidi in appena 4 mesi di attività, dall’altra vi era chi si ribellava alla dilagante rassegnazione.

La prima delle rivolte si ebbe il 10 maggio 2011 quando numerosi ospiti occuparono la S.S. Catania-Gela antistante al centro. Il successo della manifestazione fu testimoniato il 19 maggio dall’insediamento della sotto-commissione territoriale di Siracusa presso il Residence degli Aranci dopo mesi di promesse disattese. Una volta insediatasi, la sotto-commissione procedeva con una media di due audizioni al giorno ma ciò avrebbe comportato, nella migliore delle ipotesi, tempi di attesa comunque superiori ad un anno per esaminare tutte le domande pendenti. La successiva manifestazione del 6 giugno, repressa con maggiore decisione dalle forze dell’ordine, aveva comunque portato la Commissione di Siracusa a coadiuvare la sotto- commissione tre volte a settimana ponendosi l’obiettivo di raggiungere circa ottanta audizioni a settimana. Tale risposta, sicuramente positiva, non era comunque sufficiente a garantire un esame delle domande pendenti in tempi brevi. Ciò condusse all’ennesima occupazione della statale Catania-Gela, la terza in poco più di un mese, messa in atto il 21 giugno in occasione della giornata mondiale del rifugiato. Le motivazioni della manifestazione rimanevano le medesime: eccessivi tempi di attesa per l’esame delle domande e assenza di un criterio col quale definire la priorità delle domande da esaminare.

Durante l’intera gestione della Croce Rossa, agli “ospiti” della struttura furono garantiti essenzialmente alloggio, vitto e assistenza sanitaria di base, tralasciando servizi fondamentali, quali mediazione linguistica-culturale ed assistenza ed orientamento legale, stabiliti nello schema del capitolato di appalto per la gestione dei centri di accoglienza per immigrati. Le responsabilità delle pessime condizioni di accoglienza rese al centro di Mineo, ben al di sotto degli standard minimi stabiliti dalla c.d. direttiva accoglienza (2003/9 CE), erano da attribuire, per la maggior parte, al governo. È sufficiente in tal senso ricordare quanto sancito all’art. 7 dell’O.P.C.M n. 3948 del 20 giugno 2011 in cui si autorizzavano i Soggetti attuatori a “stipulare contratti o convenzioni, con soggetti pubblici o privati, (...) garantendo servizi equivalenti a quelli previsti dal capitolato d'appalto del Ministero dell'Interno per la gestione dei Centri di Assistenza Richiedenti Asilo (CARA), o con il Manuale operativo per l'attivazione e la gestione di servizi di accoglienza e integrazione per richiedenti e titolari di protezione internazionale (S.P.R.A.R.).” Dopo ben tre mesi dall’apertura del centro, per la prima volta e con impagabile ritardo, a livello centrale si faceva riferimento esplicito al capitolato d’appalto dei C.A.R.A.


3. La gestione del Consorzio “CARA Mineo”

Il 18 ottobre 2011 la gestione del centro di Mineo passava dalla Croce Rossa, cui rimaneva esclusivamente la gestione dell’assistenza sanitaria, al Consorzio Cara Mineo un’ATI (Associazione Temporanea di Imprese) composta da: Sisifo S.C.S. (ente capofila), Sol. Calatino S.C.S., La Cascina Global Service, La Casa della Solidarietà S.C.S. ed infine Senis Hospes S.C.S. Sin dal principio il Consorzio gestore definiva la gestione del centro una sfida, una sorta di missione volta a “convertire il centro di accoglienza da luogo del tempo perduto, in uno spazio di costruzione del futuro degli ospiti in esso accolti”. L’ambizione dichiarata era quella di diventare “la porta dell’Europa”, un grande “centro di competenze” al servizio del bacino del Mediterraneo. Il tempo utile per lanciare tale “sfida” veniva concesso dal D.P.C.M del 6 ottobre 2011 che prorogava l’emergenza Nord Africa fino al 31 dicembre 2012.

Il nuovo Ente gestore, per ottemperare a quanto previsto nel dettagliato “capitolato d’appalto per la gestione del centro di accoglienza per immigrati di Mineo”, attivava diversi servizi: assistenza legale, psicologica e sociale; corsi di lingua italiana; formazione e job center e mediazione linguistica-culturale. Inoltre ai richiedenti asilo veniva finalmente erogato il “pocket money” giornaliero di 2,50 euro. Si trattava comunque di denaro virtuale “caricato” sul badge di ogni ospite spendibile esclusivamente al bazar interno al CARA e in alcune catene di supermercati presenti nei paesi del Calatino. L’ente gestore - provvedimento n° 35 del 16/03/2012 del Soggetto Attuatore per la gestione del centro di accoglienza per richiedenti asilo – si aggiudicava nuovamente la gara d’appalto per la gestione del CARA. Nel frattempo, come affermava lo stesso soggetto attuatore, On. Giuseppe Castiglione, la città di Mineo e i Comuni limitrofi iniziavano a comprendere il potenziale economico che il CARA offriva, sia in termini lavorativi che di sviluppo del territorio.
In un’area depressa dalla perdurante crisi occupazionale ed in un contesto generale di crisi, il CARA rappresentava un’opportunità di lavoro per molti giovani oltre che una risorsa enorme per tutto il territorio calatino. Ciò non venne mai negato dall’ente gestore anzi veniva rivendicato come uno degli inconfutabili successi dell’esperienza del “Villaggio della Solidarietà”. Per tale motivo sia il Consorzio Cara Mineo che il Soggetto Attuatore ambivano alla costituzione di un consorzio pubblico di enti locali che subentrasse all’amministrazione del CARA consentendone il passaggio da una fase emergenziale ad una strutturale. D’altronde, è opportuno ricordare che l’imminente fine dell’emergenza Nord Africa sembrava potesse condurre alla chiusura del “Villaggio della Solidarietà”. Il 18 novembre 2012 nasceva persino il “Pro Cara di Mineo”, “un comitato spontaneo e apartitico, con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica su ciò che costituisce per il territorio, in termini di risorse, il CARA.” L’unica iniziativa di cui vi è traccia è una “fiaccolata”, cui aderì anche la UIL, organizzata nel paese di Mineo, il 26 novembre successivo, al fine di tutelare il lavoro degli oltre 250 operatori del CARA, definito “una risorsa intoccabile”.

L’epilogo è noto a tutti. Il CARA di Mineo non solo è sopravvissuto alla fine dell’emergenza Nord Africa (28 febbraio 2013), ma è ormai prossimo alla definitiva “stabilizzazione” nell’ambito del frammentato sistema di accoglienza italiano. In tal senso è sufficiente ricordare la nota 47208 del 2/10/2013 tramite la quale la Prefettura di Catania, su indicazione del Ministero dell’Interno, chiede al Consorzio “Calatino Terra d’Accoglienza” di individuare una struttura idonea all’accoglienza di 3000 immigrati ai fini della sottoscrizione di una convenzione triennale (rinnovabile per ulteriori tre anni) per la gestione di un Centro CARA. Dal 1 gennaio 2013 dell’amministrazione del CARA di Mineo è responsabile il Consorzio dei comuni di Mineo, San Michele di Ganzaria, Vizzini, San Cono, Ramacca, Raddusa, Licodia Eubea denominato appunto “Calatino Terra d’Accoglienza”. La gestione, invece, grazie ad una serie di proroghe è sempre assegnata al Consorzio Cara Mineo cui però, dal 1 gennaio 2013, si è aggiunta l’impresa Pizzarotti & C. Spa, proprietaria del Residence degli Aranci che, solo per il biennio 2011-2012, ha già incassato almeno 8 milioni di euro (360.000 euro al mese). L’innegabile business legato alla gestione del Cara di Mineo è stato, sin dal principio, al centro delle acerrime diatribe fra le diverse forze politiche a Mineo e nei comuni del Calatino.

La drammatica condizione dei richiedenti asilo ospiti presso il Cara è invece balzata agli onori della cronaca quasi esclusivamente a seguito delle innumerevoli occupazioni della SS Catania Gela antistante al CARA. L’ultima in ordine cronologico, il 19 dicembre 2013, ha in sostanza le stesse rivendicazioni della prima, quella del 10 maggio 2011, ovvero: tempi abnormi di attesa per la convocazione da parte della Commissione territoriale competente per l’istanza di protezione internazionale; insufficiente numero di audizioni a settimana della suddetta Commissione; elevato numero di dinieghi, attesa infinita per ottenere la data dell’udienza per il ricorso avverso il diniego; assistenza sanitaria inadeguata in rapporto al numero degli ospiti; pocket money (spesso sostituito da sigarette e ricariche wind) e pessimo sistema di collegamenti con i centri urbani.

E’ opportuno ricordare che con il susseguirsi di manifestazioni si registra un crescente sentimento di intolleranza nei confronti dei richiedenti asilo da parte di molti cittadini dei vari comuni, Mineo in primis. Il rischio che tale insofferenza venga strumentalizzata e cavalcata è serio e non va sottovalutato. Purtroppo, esclusa qualche eccezione, i media, i politici e i responsabili della gestione del CARA operano una banalizzazione, una semplificazione riduttiva a due schieramenti contrapposti: Pro CARA e No CARA. A nostro avviso, invece, occorre distinguere ciò che accade a monte e a valle. A monte vi è un carente quadro normativo nazionale e regionale che produce un sistema di accoglienza caotico e frammentato gestito da Prefetti che ricorrono sistematicamente ad una prassi emergenziale. Il CARA di Mineo rappresenta sicuramente l’emblema di tale “sistema” ma non ne è l’unico esempio, basti pensare ai molteplici centri attivati nell’anno appena trascorso: l’ex istituto educativo Umberto I a Siracusa, la tendopoli al PalaNebiolo a Messina, le parantesi fortunamente chiuse della palestra del campo sportivo di Pozzallo e del palazzetto dello sport “Palaspedini” di Catania e via dicendo. E ancora la responsabilità di aver concepito l’idea di un “Mega Cara” confermata dalla citata nota 47208 della Prefettura di Catania.

A valle la situazione non è certo meno complessa, ma appare drammaticamente legata a ragioni di interesse economico e politico. Il Consorzio Cara Mineo, tramite i diversi canali di comunicazione di cui dispone, dai social network al blog passando per la rivista CARA News, rivendica orgogliosamente il proprio operato definendo il CARA di Mineo la più grande impresa del Calatino, la più grande fabbrica delle relazioni umane, una particella di amore, solidarietà ed integrazione. I suoi sostenitori politici rivendicano inoltre l’importanza che il CARA ha assunto, essendo divenuto il principale propulsore economico per il territorio nonché fonte di lavoro per circa 300 operatori sociali della zona. Il fronte dei “contrari” invece è tutt’altro che omogeneo: c’è chi ricorre alla politica del terrore strumentalizzando ad hoc le rivolte dei migranti; chi contesta esclusivamente la gestione clientelare delle assunzioni dei lavoratori al CARA; chi contesta esclusivamente l’utilizzo di una struttura privata che frutta milioni di euro alla Pizzarotti & C. Spa; ci sono gli agricoltori che denunciano i furti di arance dai terreni antistanti al CARA; e infine ci sono i diretti interessati, gli oltre quattromila richiedenti asilo che non hanno voce in capitolo. A quest’ultimi restano solo gesti estremi per attirare l’attenzione sulla loro condizione di vita, spesso si è trattato di manifestazioni pacifiche (come la manifestazione del 19 dicembre scorso della quale però i media hanno enfatizzato gli scontri avvenuti fra manifestanti e forze dell’ordine “dimenticando” l’assemblea conclusiva tenutasi nel comune di Palagonia in cui i manifestanti hanno spiegato le ragioni della protesta ai cittadini e al Sindaco.), ma a volte si è arrivati al più estremo dei gesti, come nel caso di Mulue Ghirmay, un giovane eritreo di 21 anni suicidatosi il 14 dicembre scorso all’interno del CARA.

A nostro avviso il CARA di Mineo è un’esperienza fallimentare che andrebbe chiusa al più presto. Non riteniamo né concepibile né realizzabile in strutture di tali dimensioni un’accoglienza dignitosa che rispetti gli standard minimi vigenti. Contrariamente da quanto dichiarato dal Consorzio gestore, non crediamo che l’obiettivo primario sia l’integrazione dei richiedenti asilo poiché tutte le attività descritte sono previste all’interno del CARA mentre le attività esterne sono programmate e inserite in un calendario, seppur fitto, in cui è il Consorzio a decidere quali e quante persone portare all’esterno e soprattutto quale immagine dare del CARA. Esemplare in tal senso appare il recente lancio del docufilm “Io sono io e tu sei tu”, girato interamente all’interno del CARA – prodotto dalla Fondazione Integra direttamente riconducibile a Sisifo S.C.S, ente capofila del Consorzio Cara Mineo – il cui obiettivo dichiarato è “promuovere un modello di accoglienza in un panorama di strutture che invece hanno fatto fallire l'emergenza umanitaria in Italia”. Il 2 gennaio scorso si è tenuto un consiglio comunale straordinario a Mineo, in cui Anna Aloisi nella doppia veste di sindaco di Mineo e presidente del Consorzio “Calatino Terra d’Accoglienza” ha illustrato le recenti novità, fra cui spiccano: l’imminente insediamento di due commissioni a Catania che coadiuveranno la Commissione territoriale di Siracusa nelle audizioni dei richiedenti asilo ospiti presso il CARA di Mineo, l’approvazione in Parlamento del finanziamento di tre milioni di euro in favore del territorio calatino e la ripresa del progetto “Strade sicure” che porterà l’esercito a presidiare l’area in cui insiste il CARA. La decisione di ricorrere all’intervento dell’esercito per garantire la sicurezza del territorio nonché lo stanziamento dei tre milioni di euro appaiono, ancora una volta, soluzioni emergenziali di breve periodo mirate a placare l’insofferenza e la necessità di maggior sicurezza dei cittadini del calatino. In tale direzione potrebbe essere letta anche la previsione di attivare le due commissioni a Catania che dovrebbero portare ad una riduzione del numero degli ospiti. Almeno in questo caso, tale soluzione, anche se eccessivamente tardiva, è sicuramente positiva perché dovrebbe velocizzare i tempi per l’esame delle istanze di protezione internazionale degli ospiti del CARA.

Alla luce di quanto esposto sin qui, riteniamo che la ‘bomba ad orologeria’ non sia affatto disinnescata e non lo sarà fino a quando non muterà l’approccio sia a ‘monte’ che a ‘valle’.