giovedì 22 gennaio 2015

Da Paestum a Siracusa: Continua la lotta di un gruppo di migranti per avere un'accoglienza degna.

“Se esiste un regolamento, non significa che  sia rispettato. Questo ho imparato da quando sono in Italia”. A parlare è S., richiedente asilo proveniente dall’Afghanistan arrivato da circa quattro mesi nel nostro paese. E’ venuto a contatto subito nel peggiore dei modi con il sistema della cosiddetta accoglienza. Poche settimane dopo essere sbarcato infatti, S. viene trasferito in un centro di accoglienza a Paestum, dove vive per mesi subendo angherie e minacce da parte dei gestori, spesso armati, che denuncia coraggiosamente insieme ad altri migranti. La Repubblica 
In seguito a ciò, per motivi di sicurezza, viene trasferito presso lo Sprar di Belvedere di Siracusa, gestito dalla Cooperativa Luoghi Comuni, dove alloggia da una quindicina di giorni con altri tre migranti che erano con lui a Paestum. Incontro S. ed un altro suo amico a Belvedere, visibilmente stanchi e preoccupati. Le prime battute che ci scambiamo mi fanno capire il loro alto livello di stress e ansia. Le difficoltà dell’arrivo in un posto nuovo, la profonda sfiducia nel sistema di protezione italiano, dopo la recente esperienza, li rendono molto nervosi dinanzi ai cambiamenti e alla poca chiarezza che mi riferiscono di avere trovato qui, soprattutto in merito ai loro documenti. Per capire meglio, decido di analizzare con loro la situazione partendo dal contratto che hanno firmato al loro ingresso. S. mi dice di aver firmato un contratto scritto in italiano e tradotto in inglese da un mediatore, poiché al momento non esistono nella struttura contratti tradotti per iscritto, e questa cosa ha iniziato subito ad allarmarlo, trovandosi costretto a fidarsi ciecamente di ciò che gli veniva riferito per aderire al progetto di protezione.
Mentre parliamo di questo siamo raggiunti dal responsabile della struttura, Sig. Pino, che al mio arrivo avevo avvisato della mia presenza, il quale ci invita a discutere delle problematiche del ragazzo nel suo ufficio, per chiarire la questione anche con l’assistente legale del centro. Raccolgo volentieri l’invito, traducendo a S. la nostra discussione. Il gestore sostiene che S. si sia inserito con “il piede sbagliato” nel centro, lamentandosi fin dall’inizio per la mancanza del wi fi e polemizzando sulla questione riguardante i suoi documenti. Propongo di tralasciare momentaneamente la questione dell’accessibilità alla rete, non prevista nel contratto, come mi conferma anche S., e lasciata alla discrezionalità delle strutture, nonostante l’importanza rivestita per i migranti da questa risorsa, che spesso è il loro unico modo per comunicare con parenti all’estero. Chiedo invece spiegazioni sulla mancanza di un regolamento scritto in lingua, sottolineando la pericolosa dinamica che le traduzioni orali possono innescare (la parola di uno contro quella di un altro, in questo caso, del richiedente asilo  contro quella degli operatori) e come la buona prassi di regolamenti scritti tradotti nelle principali lingue internazionali possa essere conveniente a tutti gli attori presenti nella struttura. Il responsabile ribatte sottolineando come il Servizio centrale non obblighi a questo, e precisando che comunque ogni contratto viene controfirmato anche dal mediatore, responsabile di eventuali inadempienze. Ma il timore di S. non sembra ovviamente placarsi dopo queste affermazioni, come dinanzi ai continui e generici inviti a “stare tranquillo e non preoccuparsi” che mi confida aver ricevuto dagli operatori in questi ultimi giorni. E l’invito a “stare tranquillo” si ripropone anche quando decidiamo di affrontare la questione principale: i documenti. S. spiega di avere saputo che il suo permesso di soggiorno per richiesta di protezione internazionale è pronto per essere ritirato alla Questura di Salerno da circa tre settimane. Ora, arrivato al Belvedere, ha appreso dagli operatori che non solo non avrebbe avuto dal progetto i soldi per pagarsi il viaggio ed andare a ritirarlo, ma la prassi prevede che lui debba recarsi alla Questura di Siracusa, rilasci nuovamente le impronte digitali, e ricominci il suo iter di richiesta nella nuova provincia di residenza! Una prassi che oltre a non essere corretta da un punto di vista giuridico, comporta dei grossi disagi da un punto di vista pratico, considerati lunghi tempi di attesa nelle procedure riguardanti la protezione internazionale. Il responsabile e l’assistente legale mi spiegano che informandosi presso la Questura di Siracusa, il suggerimento ricevuto è stato quello di ricominciare l’iter in questa provincia, considerata la breve durata del primo permesso, già emesso da Salerno, e il necessario trasferimento dei dati di domicilio presso la nuova questura. Un consiglio quindi per facilitare il lavoro dell’istituzione, a quanto pare ulteriormente motivato dalle lunghe attese per la Commissione, per cui la perdita di alcuni mesi data dal ricominciare la procedura, viene considerata poca cosa. In virtù di questo è stato consigliato a S. di abbandonare l’idea del viaggio a Salerno, anche se responsabile e assistente negano di aver mai dichiarato di non pagare il biglietto per il viaggio. Ma anche in questo caso, si accende la diatriba sulla parola di uno contro quella di un altro. Il dialogo non è semplice, con l’inevitabile ansia e frustrazione di S. che difende il suo sacrosanto diritto ad avere il tanto atteso permesso di soggiorno e non tollera l’idea di aver  trascorso tre mesi della sua vita  in un’inutile attesa, oltre che in pessime condizioni. “Mi chiedo perché non si debbano rispettare le leggi, io ho già un documento e qui dovrebbero aiutarmi ad averlo il prima possibile, non a perderlo”, dice S., mentre il responsabile replica: “Non capisco perché in tre settimane non si sia recato e ritirare il documento a Salerno, se sapeva che lì era già pronto”. Affermazioni che rattristano, ripensando al recente passato di S. a Paestum, di cui evidentemente nessuno qui tiene conto, e comunque inutili a risolvere il punto centrale della questione: la necessità di recuperare il documento già emesso e che spetta di diritto ad S., senza nessuna deroga. La nostra discussione si focalizza appunto su questo. L’assistente legale infine, conferma di informarsi presso la Questura di Salerno per un appuntamento, e alla data stabilita assicurare ad S. la possibilità di andare finalmente a recuperare il suo permesso. Con quali soldi? Anche su questo punto mi è sembrato quantomeno dovuto avere delle rassicurazioni, e comunicarle ad S. Il gestore, invitandoci nuovamente a non preoccuparci, spiega che probabilmente saranno gradualmente trattenuti dal pocket money mensile del ragazzo, finchè non arriveranno i rimborsi dal Servizio Centrale. Invita poi S. a chiedere spiegazione per qualsiasi incomprensione agli operatori della struttura, interpellandosi al mediatore, e non fidarsi ciecamente delle voci e dei consigli che circolano tra i ragazzi del centro, così da evitare altri inutili fraintendimenti e logoranti discussioni, vista la buona disposizione che c’è da parte della gestione. S. sembra sollevato, vedendo più vicina la possibilità di avere finalmente i suoi documenti. Ma ancora più consapevole delle numerose lotte quotidiane che lo aspettano in questo suo lungo percorso. Per poter capire e farsi capire, far valere i propri diritti e autodeterminarsi in un sistema in cui è troppo facile trasformarsi in numeri, dopo una prima accoglienza caratterizzata da minacce e intimidazioni. “Credevo che in Italia fosse scontato, invece spesso mi trovo a difendere il fatto che anche se vengo da fuori, ho dei doveri ma pure diritti e devo essere tutelato come ogni persona”.

Lucia Borghi
Borderline Sicilia Onlus